pubblicato il 13 ottobre 2018

Urban-Farming, quando le città si sfamano da sole

In città, parte del cibo consumato viene prodotto sui tetti o in orti urbani. La tendenza ha contagiato le municipalità di Usa e Nord Europa e sta arrivando anche in Italia, con effetti imprevedibili

TAGS: Orti urbani, Idroponica, Fuori suolo, Agricoltura, Agricoltura Urbana, Vertical farming

Si chiama urban farming, coltivare piante ad uso alimentare all'interno del tessuto urbano. Piccoli orti, ma non solo. Anche roof garden (i giardini sui tetti), green wall (pareti verdi) e impianti indoor (aeroponici, acquaponici o idroponici). Insomma, tutto ciò che permette a chi vive tra il cemento di avere verdura e frutta fresca a portata di mano

Può sembrare una realtà marginale, ma non lo è. L'urban farming viene praticato nei paesi poveri come modello per garantire l'accesso al cibo. Basta pensare che nel 2002 il 90% dei prodotti freschi mangiati dai cittadini de L'Avana provenivano da orti urbani.
Se in questi paesi lo scopo è la sussistenza alimentare, in Occidente gli obbiettivi sono "la creazione di reti sociali, la riduzione degli spostamenti dei prodotti agricoli, il miglioramento del microclima della città e l'efficienza energetica degli edifici", come ci spiega Francesco Orsini, ricercatore dell'Università degli studi di Bologna, fresco del successo del concorso internazionale per la Green Tower progettata dagli studenti Unibo a Wageningen

Dunque le città del futuro saranno giardini verdi in cui i cittadini si coltiveranno il cibo da soli?
"Tutto dipende dall'impegno delle amministrazioni pubbliche nell'agevolare questo modello. L'urban farming non riguarda solo il cibo, ma il tessuto sociale metropolitano e il suo ambiente. La creazione di spazi coltivabili agevola lo sviluppo di relazioni interpersonali. I tetti o le pareti verdi isolano gli edifici e trattengono le precipitazioni migliorando il microclima. Senza contare che il cibo non deve percorrere lunghe distanze per arrivare a destinazione".

Coltivare la terra è una professione e non ci si può improvvisare agricoltori da un giorno all'altro. E' auspicabile dunque che ogni cittadino si coltivi il balcone?
"Più che il singolo cittadino o il singolo balcone bisogna investire su aziende che coltivino spazi peri-urbani o magari i tetti delle case, costruendo delle serre, come avviene a New York. Non deve essere un fenomeno improvvisato, ma studiato e promosso dai municipi".

Coltivare ortaggi sul tetto di una casa in centro a Milano o a Roma non è pericoloso per la salute umana visti i livelli di inquinanti presenti nell'aria?
"Abbiamo svolto delle ricerche su questo punto e la risposta è stata negativa. Le produzioni cittadine non si discostano dai parametri di quelle rurali. Abbiamo fatto anche degli studi sui sistemi fuori-suolo che permettono di abbattere il rischio di inquinanti anche nelle aree a rischio, come le arterie stradali o ferroviarie".

Quale impatto ha l'urban farming sulla biodiversità?
"Ha un effetto positivo perché ricrea nel tessuto urbano un habitat per piante, insetti e uccelli".

Quali sono le città che hanno sviluppato di più il concetto di urban farming?
"Sicuramente i paesi del Nord Europa, ma anche città come New York o Shanghai, in cui il 50% del cibo consumato viene prodotto all'interno del tessuto urbano. In Italia direi che la municipalità più attenta è Bologna anche se Milano, con Expo2015, ha visto nascere realtà interessanti, che però poi non si sono concretizzate in nulla di duraturo dopo l'esposizione universale".

Tratto da Agronotizie